Un anno di guerra in Ucraina ha cambiato l’economia mondiale

Crisi energetica, sanzioni, extraprofitti delle aziende dell’energia, crisi alimentare, inflazione, aumenti dei tassi

L’invasione russa dell’Ucraina è iniziata, un anno fa, proprio in un momento in cui l’economia mondiale si stava riprendendo dopo due anni di pandemia, dopo le restrizioni e dopo la grave crisi economica che ne è conseguita. Il 2022 avrebbe dovuto essere l’anno della ripartenza dopo la pandemia e in parte così è stato. Ma con l’inizio della guerra in Ucraina moltissime cose sono cambiate, e l’economia europea e mondiale hanno subìto nuovi colpi: sanzioni, crisi energetica e alimentare, inflazione sono state solo alcune delle conseguenze della guerra sull’economia.

Il ruolo delle sanzioni
Le sanzioni che l’Occidente ha imposto alla Russia sono tantissime. Servono a colpire l’economia russa da vari fronti e sono riconducibili grossomodo a quattro tipologie: le sanzioni individuali contro membri dell’élite russa e del governo, le sanzioni che hanno ridotto lo spostamento di persone e merci da e verso la Russia, le sanzioni finanziarie, come quelle che hanno bloccato le riserve russe depositate all’estero, e le sanzioni commerciali, come quelle che vietano di esportare in Russia determinati prodotti, per esempio beni di lusso o beni altamente tecnologici, e di importare dalla Russia beni energetici. Secondo l’istituto Castellum.AI – un’associazione che si occupa di monitorare crimini economici e frodi finanziarie – dall’inizio della guerra sono state imposte alla Russia oltre 11 mila sanzioni da parte dei paesi del G7, della Svizzera e dell’Australia. Considerando anche quelle imposte dopo l’occupazione della Crimea nel 2014, la Russia è il paese più sanzionato al mondo e da sola subisce più sanzioni di quelle imposto nel complesso al resto dei paesi.

Nonostante le sanzioni, secondo le nuove stime del Fondo Monetario Internazionale il Prodotto Interno Lordo (PIL) della Russia nel 2023 potrebbe crescere dello 0,3 per cento, contro le previsioni di ottobre che lo vedevano in calo del 2,3 per cento proprio per effetto delle sanzioni. Secondo l’FMI l’economia russa è tenuta in piedi dalle esportazioni di petrolio, che continuano a garantirle notevoli guadagni, e dal fatto che sta aggirando le sanzioni commerciali. Molte inchieste – come alcune del New York Times – hanno effettivamente dimostrato che la Russia è riuscita nel tempo ad aggirare le sanzioni, anche grazie alla complicità di alcuni paesi, come Cina, India e Turchia. Non vuol dire che le sanzioni siano inutili: nel 2022 il PIL russo si è comunque contratto del 2,2 per cento. Non tanto quanto ci si attendesse, ma le sanzioni ci mettono tempo a produrre effetti, soprattutto quelle più efficaci, come il divieto di esportazione di tecnologia strategica.

La fine della dipendenza energetica dalla Russia, a un costo
Il ruolo importantissimo che aveva la Russia come paese esportatore di gas ha messo in grave difficoltà molti paesi, soprattutto membri dell’Unione Europea, che erano fortemente dipendenti dalle materie prime russe. Dall’autunno del 2021 e con l’inizio della guerra in Ucraina il prezzo del gas era aumentato moltissimo a causa del timore che in risposta alle sanzioni la Russia avrebbe smesso di fornirlo: le quotazioni avevano raggiunto lo scorso agosto i massimi storici, superando i 300 euro al megawattora (in tempi normali sono intorno ai 20 euro).

Oggi il prezzo si è notevolmente abbassato rispetto ai momenti di massima gravità della crisi, perché non c’è più timore di restare senza gas. In questo anno l’Unione Europea ha lavorato molto per limitare la dipendenza dal gas russo. Benché i paesi europei ne importino ancora, ormai la Russia è un fornitore residuale: prima della guerra forniva all’Unione Europea il 40 per cento delle sue importazioni di gas, mentre oggi si limita al 7,5 per cento. Il gas russo è stato sostituito potenziando gli accordi con la Norvegia e l’Algeria, e anche importando di più quello in forma liquida che arriva via mare dagli Stati Uniti e da altri paesi.

Oggi possiamo dire che tutto sommato questo inverno è andato bene perché il gas non è mai mancato e non ci sono stati razionamenti forzati. Tuttavia il costo economico e sociale è stato molto alto: in Italia si stima che nel 2022 le famiglie abbiano speso oltre il 60 per cento in più rispetto al 2021 per le bollette del gas e più del doppio per quelle dell’energia elettrica; le aziende hanno ridotto le loro produzioni e hanno effettivamente razionato il gas, perché era diventato troppo costoso produrre con un prezzo dell’energia così alto.

Anche per il petrolio russo l’Unione Europea ha avuto bisogno di tempo per organizzarsi in modo da smettere di importarlo. L’Unione Europea, come nel caso del gas, ha avuto bisogno di tempo per trovare fornitori alternativi e l’embargo al petrolio russo è infine entrato in vigore dal 5 dicembre: oggi si importano non più di 600mila barili al giorno, un quarto rispetto a prima della guerra. Dal 5 febbraio è scattato anche il divieto di importazione dei prodotti petroliferi dalla Russia, come il gasolio.

Le grandi aziende dell’energia hanno avuto uno dei migliori anni di sempre
Gli enormi rincari dell’energia hanno portato grandi profitti nel 2022 alle aziende energetiche e alla Russia stessa. Quest’ultima ha più che compensato il calo delle esportazioni verso l’Occidente: nel 2022 petrolio e gas hanno comunque garantito alla Russia oltre un terzo delle entrate statali, circa 9 mila miliardi di rubli (112 miliardi di euro), quasi un terzo in più rispetto al 2021.

Le grandi multinazionali petrolifere occidentali, poi, hanno guadagnato molto di più che in passato, perché le loro spese (per l’estrazione, la raffinazione, la vendita) sono rimaste di fatto le stesse, mentre il prezzo del petrolio è aumentato notevolmente. Su tutta la filiera produttiva, dall’estrazione fino alla vendita alla pompa di benzina, le aziende hanno ottenuto guadagni eccezionalmente alti. Secondo i calcoli di Reuters, i profitti delle più grandi società energetiche occidentali (Shell, BP, TotalEnergies, Chevron, ExxonMobil) hanno raggiunto nel 2022 i 200 miliardi di dollari, più del doppio dell’anno precedente.

La crisi alimentare
I rincari non hanno coinvolto solo i beni energetici e lo scorso anno sono aumentati i prezzi di tantissime cose, soprattutto quelli del cibo. Dopo solo qualche settimana dall’inizio della guerra il prezzo del grano tenero era aumentato di oltre il 30 per cento e quello del mais del 41 per cento. E nei mesi i rincari si sono fatti sempre più consistenti. Il blocco dei porti di Odessa e di altri sul Mar Nero aveva causato un’improvvisa mancanza di cereali sui mercati globali, il che ha fatto salire notevolmente le quotazioni. La situazione si è tuttavia stabilizzata dopo alcuni mesi dall’inizio della guerra, grazie anche al fatto che dopo mesi di negoziati la Russia ha deciso di garantire le esportazioni di cereali dall’Ucraina.

Il prezzo del cibo è aumentato in modo generalizzato dopo l’inizio della guerra perché scontava i notevoli rincari dell’energia, che serve per la produzione e anche per il trasporto del cibo stesso (come nel caso del latte e dello zucchero). A un anno dall’inizio della guerra i prezzi dei beni alimentari sono però tornati più o meno quelli di prima: a gennaio l’indice dei prezzi alimentari Fao – che misura mensilmente il prezzo medio del cibo in tutto il mondo – è stato pari a 131,2, vicino ai valori di gennaio 2022, quando era pari a 135,6.

È tornata l’inflazione dopo decenni, non soltanto a causa della guerra
La guerra in Ucraina ha intensificato una tendenza che era già in atto da metà del 2021, ossia quella di un aumento generalizzato dei prezzi. Si è tornati quindi a sentire parlare di inflazione, che è il parametro che misura gli aumenti dei prezzi di un insieme di prodotti e servizi rappresentativo del costo medio della vita.

L’inflazione osservata in questi mesi ha avuto origini miste: da un lato i prezzi di molti beni sono aumentati a causa della crisi dei commerci mondiali generata dalla pandemia, che per esempio hanno reso introvabili e quindi più care molte materie prime (come i chip). C’è stato poi un aumento della domanda provocato in parte dai sussidi concessi dai governi durante la pandemia. A questo bisogna aggiungere i consistenti rincari dell’energia, che hanno reso più care le produzioni e i trasporti, il che ha portato le aziende a scaricare questi aumenti sui prezzi finali.

Per evitare o limitare questo tipo di distorsioni, le banche centrali – come la Banca Centrale Europea e la Federal Reserve americana – adottano delle politiche cercando di normalizzare l’economia e rallentare l’aumento dell’inflazione. Lo strumento tradizionalmente usato è l’aumento dei tassi di interesse di riferimento.

(Fonte: ilPost)

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